La cattura delle quaglie selvatiche era nel Vicentino, in particolare nelle campagne di Levà di Montecchio Precalcino, una tradizione popolare di caccia spesso utile o addirittura fondamentale per una economia povera di mezzi di sussistenza, come quella veneta. Le molte famiglie di contadini della zona potevano “campare” anche grazie alla caccia alla quaglia e alla successiva rivendita degli animali. Quanto segue quindi vuole essere una rievocazione del passato, e non già un’apologia della caccia a questo animale (peraltro vietata da molti decenni).
Storicamente, per i contadini di Levà era tradizione costruire per la cattura della quaglia la “quajara”: una specie di grande ombrello di lamiera, posto a circa cinque metri di altezza, con appese le gabbie da richiamo. Ai piedi della quajara c’era una serie di reti dove gli uccelli selvatici, richiamati da quelli nelle gabbie, rimanevano imprigionati quando iniziavano la loro migrazione di fine estate. Dopo le fatiche nei campi, gli uomini contavano su questa forma di caccia per poter portare a casa, per le proprie famiglie, qualche soldo utile a superare le rigidità della vita contadina nell’inverno che si avvicinava. Oppure, con quegli animali pagavano una rendita fondiaria per l’impiego dei campi: un esempio attestato è quello di Bortolo Nievo, che in un contratto notarile del 1793 si impegnava versare a Francesco Lago quattro quaglie.
Per i contadini di cent’anni fa qualche quaglia venduta ai borghesi benestanti del Thienese poteva fare la differenza. Così, di buon’ora, prima dell’alba, il contadino caricava sulle spalle l’asta con le gabbiette e le andava a sistemare nel luogo di cattura. Alla caccia talvolta partecipavano anche i ragazzini della contrada, entusiasti per l’avventura che li attendeva: proprio da questo potrebbe aver avuto origine, nel tempo, il gioco da monelli del “salto della quaglia”. La caccia alla quaglia in particolare nella zona di Levà era quasi un secondo mestiere. La pratica della cattura viene ricordata dagli anziani come una “minuziosa lotta di ingegno”. La quaglia infatti è un uccello dall’udito finissimo, ben difficile da sorprendere, ma al tempo degli amori il maschio dell’animale si instupidisce, al punto da affrontare qualsiasi rischio per arrivare alla femmina che costituisce l’oggetto dei suoi desideri. Gli esperti cacciatori di un tempo lo sapevano, e simulando il canto della quaglia con uno strumento sonoro chiamato “quaiarolo” – un sacchettino di cuoio con un osso forato innestato – invitavano l’incauto maschio in amore ad infilarsi nella trappola fatta di reti mobili, detto “cortinelo”. Quando invece la trappola era di reti fisse era chiamata “buelo”. Le catture cominciavano in primavera quando, appena arrivate dal Nordafrica per nidificare, le quaglie cominciavano a cantare. Per tradizione il giorno della cattura delle quaglie rimaste senza femmina era il 25 aprile, San Marco. I maschi catturati in questo modo non venivano tutti venduti, anzi servivano successivamente: venivano chiamati “quajoti”, e servivano ai cacciatori per richiamare e cacciare le femmine dopo l’estate. Le vere e proprie catture cominciavano in quel periodo dell’anno: per il giorno di Ferragosto cucinare la quaglia era tradizione, lo dice anche il proverbio di allora “All’Assunta poenta nova e quaje”. I poveri uccellini così catturati comunque venivano quasi tutti rivenduti ai ricchi possidenti dell’area Pedemontana, che organizzavano nelle loro dimore fastosi banchetti a base di spiedi.